Cultura e letteratura nel primo ventennio del secolo (1950)

«Ulisse», a. IX, n. 11, Roma, aprile 1950; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Cultura e letteratura nel primo ventennio del secolo

La parola «rinnovamento» è particolarmente adatta alle aspirazioni del primo ventennio del secolo, e ne costituisce in sostanza la nobiltà ed il limite, allo stesso modo che il bisogno di una cultura nuova ed integrale e di una letteratura come cultura e rinnovamento rappresenta il filo rosso di espressioni personali e di gruppi militanti in anni che esperienze, delusioni e ripensamenti meno entusiastici rendono insieme attraenti e lontani come una stagione giovanile (non importa se nostra o delle nostre immediate «guide», dei nostri fratelli maggiori) di cui vediamo ormai con chiari occhi la confusa ispirazione, la capacità insufficiente di scelta in linee di tensione genuina e di impuro turgore, di vigoroso sforzo di cultura e di superficiale volgarizzazione. La riflessione sulla situazione dell’uomo ci sembra piú difficile e silenziosa, la complessità delle esperienze ci ha resi piú paurosi di ogni retorica, piú guardinghi nel desiderio stesso di rinnovamento, e i resoconti degli insuccessi (e non solo del primo ventennio) ci hanno fornito una coscienza piú vigile di fronte a quel periodo in cui la parola sembrò inevitabilmente carica di novità, la letteratura sentí spregevole ogni solitudine che non fosse per la ricerca nell’intimità di raccordi con la cultura, e alcuni sistemi preparati dall’Ottocento apparvero immediatamente fungibili e sicuramente capaci di rinnovamento.

Già alla fine del secolo il dominio del positivismo e del realismo veristico, affermati nella vita culturale e letteraria dagli epigoni del Carducci e dell’Ardigò, in quella attività minuta, fanaticamente superba di costruzione senza salti e d’altra parte eroica ed onesta nelle sue fatiche preparatorie (presa nel contrasto con il romanticismo di cui smantellò i miti brillanti e pericolosi fino a fare scivolare «genio» in «degenerazione»), era stato scosso e turbato nella sua volontà illuministica dalle venature mistiche ed estetizzanti del decadentismo che germogliava nelle pieghe piú sensibili di quel tempo volontariamente poco poetico.

Appoggiato spesso a ricerche di origine positivistica (l’audizione colorata, lo sviluppo della psicologia in psicanalisi ecc.), il decadentismo si affermava nella contrapposizione di bellezza e di potenza a verità e «virtú», di poesia come fruizione individuale ed amorale a scienza come ineccepibile dominio di chiarezza razionale, anche nelle sue scoperte di istinti e forze di struttura che piú tardi si riversarono, nella loro maggiore energia romantica di spiegazione e di trasformazione, sullo scenario piú vasto del Novecento. L’ammirazione del giovane D’Annunzio per Moleschott era equivoca come quella per il Carducci piú ottocentesco, o per il verismo narrativo. Con le ultime «Cronache bizantine», con gli articoli dannunziani del periodo romano e poi con il «Convito» di De Bosis si diffonde nella letteratura italiana di fine secolo una rivalutazione estetizzante del valore poetico e della «genialità» personale che reagiva al periodo del «metodo storico», incideva profondamente sulla tradizione letteraria già scossa da scapigliati e veristi sul piano del linguaggio, ed agitava il costume italiano coagulandosi nella figura esemplare dell’arbiter elegantiarum, del «deputato della bellezza» (e poi del «poeta soldato» nella direzione dell’estetismo nazionalistico) che ben offriva a quel tempo irrequieto e morbido, nella sua crisi di rinnovamento, la sua disponibilità dilettantesca e il suo piglio religioso subito deviato in gesto vistoso e in affermazione edonistica della personalità. Nella rivolta all’onesto e mediocre ordine del positivismo tra fine secolo e primissimo Novecento, il decadentismo ha una importanza particolare come creazione di un clima generale in cui ai dannunziani e contiani si affiancano fogazzariani, teosofi e modernisti nel loro assetto in culto estetico di un primitivo cristianesimo, nelle loro scritture generalmente fervide e rugiadose che potevano celare esigenze risolute e drammatiche e tentazioni di mondanità. Un’atmosfera culturale e letteraria eccitata e preziosa cosí ben incentrata in Roma (fra Catacombe, San Paolo e Piazza di Spagna) avvolge il principio del secolo, mentre, giustamente restio a farsi confondere con i decadenti (la risposta inequivoca alla dedica di Conti), si affermava, con vigore filosofico e con una potenzialità di sviluppo che ne rende ancora la discussione attuale e centrale, il pensiero di Benedetto Croce; il nuovo idealismo di origine hegeliana e vichiana che non a caso si presenta anzitutto come sistemazione del momento estetico e come sua distinzione, pur coinvolgendo, nella squalifica degli pseudo-problemi del positivismo, il panestetismo decadente e il misticismo fogazzariano e modernistico che spesso duramente colpí anche nei suoi fermenti inadeguati, ma importanti per una trasformazione della società italiana.

L’idealismo crociano, mentre ricostruiva un legame con il pensiero vichiano e desanctisiano e con la piú larga tradizione filosofica europea, e si nutriva attraverso Antonio Labriola dell’esperienza essenziale del materialismo storico in una visione storicistica lontana dallo spiritualismo mazziniano, diventava una costante linea di riferimento e di discussione quale la cultura italiana non possedeva certo negli ultimi decenni del secolo scorso. E rappresentava, con l’opera attiva del Croce attraverso i suoi libri e la sua rivista «La Critica» (dal 1903), un angolo di protezione contro ritorni inutili, offrendo un saldo strumento metodologico che anche i non crociani hanno almeno saltuariamente utilizzato e che, nel primo Novecento, non si trovava di fronte esigenze che non potesse in qualche modo inquadrare o spiegare. Diciamo di piú: è proprio all’inizio del secolo e nel primo anteguerra che, malgrado il suo successivo ampliamento e arricchimento, l’attività crociana ha rappresentato con piú aderenza motivi nuovi, originali, capaci di sviluppo e di applicazione, ha corrisposto a concrete richieste storiche (dal liberalismo attivo e capace, nei suoi limiti, di offrire dialogo politico non fittizio al socialismo, alla pratica di poesia non discordante dal suo concetto di «liricità» e di «intuizione»), non ha urtato contro esperienze ormai irraggiungibili dal suo gusto e dalla sua intelligenza sistematrice.

Difficilmente si potrebbe negare alla presenza dell’opera crociana nel primo ventennio del Novecento la sua validità rinnovatrice, il suo stimolo vivo e storicissimo, la sua proposta di problemi valevoli anche per chi sentisse con diversa urgenza e con diversa inclinazione spirituale ed ideale la situazione e la vocazione degli uomini nella società e nella cultura. Né, ovviamente, nell’azione sterilizzante di certo facile formulismo, peggiorato nei piú zelanti scolari, ciò che doveva nascere è stato impedito, mentre una coscienza critica di primo ordine ha sorretto comunque alle spalle le ricerche di quanti non si sono chiusi nell’ortodossia crociana. Ma «La Critica» non fu certo la guida unica della cultura e della letteratura italiana di quegli anni, anche se costituí il rempart piú sicuro e in qualche modo la voce della filosofia piú concreta e storica di quel periodo, la sistemazione piú alta di esigenze altrimenti sparse e disordinate. E mentre l’esigenza sociale piú profonda della cultura italiana trovava uno strumento politico nel movimento socialista e uno strumento culturale nella «Critica sociale» di Turati e Treves, ma non riusciva a creare una cultura di cui piú tardi potevano essere preannunci, dopo Labriola, il liberale rivoluzionario Gobetti, il comunista Gramsci, o il liberal-socialista Carlo Rosselli (e Matteotti presentava un tipo di vita e di umanità presupposto di una vera cultura socialista), le riviste fiorentine indicavano con piú evidenza i fermenti di rinnovamento del primo Novecento e il tentativo di una letteratura come cultura, di una unione efficace e centrale dei due termini troppo spesso divisi nella nostra tradizione o solo provvisoriamente uniti come nei tentativi del «Caffè» e del «Conciliatore».

Nel «Leonardo» (1903-1907) convulso e giovanile, l’impeto ancora genuino di Giovanni Papini forniva scatto all’empirismo sistematore di Giuseppe Prezzolini e magismo e pragmatismo, nazionalismo e psicologia si fondevano in una ingenua volontà di «salto» in un «dopo» indistinto, totalmente nuovo e diverso; una tensione al futuro che avvicinava i leonardiani a forme di libertarismo, ai primi indizi del futurismo, ad un’ansia religiosa di trasformazione che stimolava nella loro forma piú irrazionale e mistica Buonaiuti e i modernisti piú resistenti. Accanto allo storicismo, col suo concreto rinnovamento in campo metodologico, nel «Leonardo» si manifestava questo carattere di ansia rinnovatrice e di spiritualismo irrequieto, sollecitazione al futuro anche in forme di baldanza insopportabile che lega espressioni diverse dal costume all’arte, alla politica e alla cultura sotto la patina ancora forte dell’estetismo e nella protezione del crocianesimo, anche esso del resto animato da una fede concreta di rinnovamento perenne nella originalità creativa della storia. Ma il carattere del «Leonardo» era soprattutto, ripeto, il «salto» e nel suo inizio questo rivoluzionarismo assoluto aveva in sé un’esigenza religiosa insopprimibile ed una volontà di antistoricismo da calcolare nei fermenti del primo Novecento. Velleità soprattutto papiniana nel confuso regno della «cultura dell’anima». Proprio questo termine rappresentava la tensione del tempo nella sua purezza e nella sua retorica: all’impeto illuministico prezzoliniano, aperto sino alla curiosità e al nutrimento dei mistici medioevali tedeschi, di Swedenborg ecc., si univa la rivolta antipositivistica mirante all’uomo nuovo, nato dalla crisi e vivo nella sua necessità di essere totalmente «dopo» e creatore nei suoi atti e nella sua meditazione. Di «anima» e della sua cultura parlava Papini nella mescolanza dei suoi impeti freschi (i piú giovanili) e dell’impura erezione dell’io con mezzi artistici di impressionismo vistoso e di scadentissima abilità linguistica; di «anima» parlava con attenzione ed impegno non smentito Giovanni Amendola; stile come espressione di anima chiedeva Eugenio Donadoni, appartato, ma cosí vicino nel suo forte spiritualismo al côté vociano, e i versi di Michelstädter o di Rebora sforzavano il tono di verità e autenticità personale della poesia, «travata di umanità» come diceva Boine.

Ciò che accomuna il «Leonardo» piú papiniano e convulso e la «Voce» piú prezzoliniana, problemistica e civile è, su toni diversi di concretezza e di misura, il bisogno di «rinnovamento» e la volontà di legare su di un principio centrale («anima», «idealismo militante») cultura e letteratura che, proprio nello spendersi attivo dei letterati in singoli problemi «tecnici» (la Crisi degli ulivi in Liguria di Boine, gli scritti sulle ferrovie, di Jahier), nel loro farsi militanti e insieme accesamente personali e senza cifra di maniera, trovava la giustificazione piú profonda per una tipica prosa poetica la cui storica importanza è stata spesso sacrificata in una condanna troppo rapida di moralismo e di epoca della «cultura» priva della religione delle lettere. In realtà il saggio vociano, dal pezzo colorito di Soffici e di Papini alle pagine di Slataper, Boine, Jahier (quanto risuona il «passo» di Jahier nella letteratura anche postvociana!), al giornalismo di Prezzolini (e lo stesso saggio di Cecchi nelle sue origini iniziali di acume critico e di posizione morale è schiettamente vociano prima che rondista), ha sostenuto nella sua varietà, nel suo alone di approssimatività e di baldanza, complessi problemi di letteratura e di linguaggio, come risolveva in sé le esigenze di cultura e di espressione di una società attiva e irrequieta, scontenta della magnificenza dannunziana, della costruzione ottocentesca carducciana e del tono di umiltà leziosa del pascolismo.

Sul «tutto da rifare» di origine leonardiana, sulla rivolta antipositivistica in cui ritorni romantici si fondono con spunti originali (si pensi al Borgese, alla sua opera di critico della «personalità» e dell’«unità» contro la distinzione crociana), la «Voce», soprattutto la prima «Voce» (1908-1913), tenne piú chiaramente ad un’Italia europea (da cui l’opera di effettiva introduzione nella cultura italiana di autori e movimenti europei fra Hebbel-Ibsen e Pèguy e l’impressionismo francese, fra pragmatismo, bergsonismo e la musica postwagneriana), ad una formazione generale attraverso contributi particolari, ambizioni di tecnismo (ma in realtà già nuclearmente bisognosi di raccordo), con ardite speranze di concretezza, di «star sul sodo» che denunciano il passaggio da un desiderio generico di rinnovamento dei primi anni del secolo a un riconoscimento di misura e di costruzione. I fumi variopinti dell’estetismo si andavano dileguando e l’insegnamento, anche quando lo si combatteva, della metodologia crociana, e quello della stessa realtà politica e sociale italiana (vicino alla «Voce» è Salvemini con la sua «Unità» e la «Voce» non ignorava l’opera attiva del socialismo nel suo condurre masse di uomini a coscienza e in definitiva a cultura) limitavano e rinforzavano, anche nei suoi pericoli di praticismo e di soddisfazione del caso concreto, la ispirazione rinnovatrice vociana intorno al suo iniziale centro di problemi della coscienza, di cultura dell’anima e la indirizzavano al problema del Mezzogiorno, alle polemiche sulla scuola, alla stessa ricerca di «riforme». Ma il motivo di rinnovamento di origine fra estetica ed etico-religiosa resiste meglio proprio nei vociani piú intimi, meno praticisti e meno impressionisti: non Prezzolini e non Papini e Soffici, ma Jahier, Slataper, Boine, in cui impegno umano ed artistico, volontà di creazione e di rinnovamento hanno un’unità originale e meno provvisoria, capace di un entusiasmo autenticamente giovanile («l’artista perché vuol essere piú vicino alla vita e coglierla nel suo fetale umidore, quello sovverte gli ordini, quello trae piú spesso fuori dal suo bagno di vita la disgregazione di ogni ordine ed è tutto trepido e inquieto di religiosità anche se ciò che dice ed esprime sia demoniacamente immorale», Boine), capace di corrispondere alla lezione di Michelstädter nella sua urgenza di fondazione assoluta (lezione non aneddotica nella corrente piú viva di un’epoca troppo spesso rivista solo come placido regno dell’eden liberale e del sentimentalismo crepuscolare), mentre il fervore piú praticistico e l’impressionismo chiassoso potevano sembrare anche una preparazione confusa di ogni piú diverso esito e potevano sbollire in conformismo al primo urto con esperienze piú dure, al primo soffio rabbioso di un big bad wolf.

Fu proprio il carattere di ampiezza e di disponibilità della «Voce», la sua retorica praticistica e moralistica rispetto al suo fondo piú intenso e alla sua validità storica (che la fa centrale in tentativi di rinnovamento e di applicazione fra la metodologia crociana, l’azione di socialisti e democratici come Salvemini ed Amendola, il pittoresco ed equivoco impeto di nazionalisti e futuristi fra modernismo e posizioni protestantistiche come quella del Gangale di Conscientia), che portò all’esaurimento di quell’esperienza, alla scissione del movimento, dopo un periodo di esclusivo dominio prezzoliniano (ma non si dimentichi che l’organizzazione e lo stimolo di attività di Prezzolini furono essenziali alla vita del movimento), nelle due «Voci» letteraria e politica. Quella scissione non avveniva tanto per il passaggio degli impressionisti a «Lacerba» (1913-1915) e ad un provvisorio fronte futurista (del resto il futurismo dopo i «Manifesti» marinettiani del 1909 aveva già perso il suo carattere piú interessante di rottura programmatica, di assalto alla sintassi tradizionale per un’anarchica libertà, per una rozza affermazione di inizio integrale, di nuova civiltà), quanto per un’interna delusione, per un’incapacità a superare il primo stadio preparatorio. La guerra e il suo tempo uccisero i migliori, il dopoguerra e la dittatura fecero affiorare la genericità di altri[1] ed altri respinsero nel silenzio (in primo luogo Jahier).

E d’altra parte non in un semplice passaggio dalla cultura alla letteratura (la tesi d’altronde cosí indicativa di Gargiulo), ma da un’esigenza piú aperta e generica di rinnovamento ad una impostazione piú guardinga, gruppi di vociani ed uomini della nuova generazione preparavano e sostenevano il movimento della «Ronda» (1919-23). Intanto lo sviluppo crociano proseguiva la sua via di «metodologia perenne» e di avvertimento contro ogni forma di oscura unità, contro ogni misticismo nobile o turpe e, con la teoria della circolarità dello spirito, assicurava una respirazione maggiore alle sue energiche autonomie legate all’insistente senso della storia a parte subjecti, e l’attualismo gentiliano cosí nutrito di fermenti romantici proponeva ancora, in maniera a suo modo esaltante, un rinnovamento dentro la storia nella posizione sempre nuova e sempre autocreatrice dell’atto, mentre gli storicisti, da Omodeo a De Ruggiero, a Lombardo-Radice, costruivano nei particolari una cultura idealistica capace di sostituire, come interpretazione generale e nelle singole specialità, la cultura del positivismo ottocentesco.

Alla possibilità di realizzazione della costruzione idealistica (chiusa in gran parte nella scuola e nei limiti di circoli di studiosi) non corrispose invece lo sviluppo di una cultura marxista strozzata dalla repressione politica proprio quando, dopo le premesse di un Labriola e il lavoro dei riformisti, la «filosofia della prassi» trovava personalità decise al pensiero ed all’azione, al tentativo di un rinnovamento integrale, di una nuova cultura per la nuova città degli uomini.

Ma sulla linea speciale delle riviste del primo Novecento, nella loro unione di cultura e letteratura, il dopoguerra vide nella «Ronda» l’affermazione di una cultura paurosa di impegni pratici e di una prevalenza religiosa o morale, attenta viceversa all’uso di ogni stimolo (ed effettivamente se la sua «curiosità» fu molto minore e i suoi interessi di conoscenza meno freschi ed ansiosi, non mancò certo di contatti europei) nell’ambito sicuro della letteratura, dell’espressione artistica e della serriana religione delle lettere. Già la «Voce» letteraria di De Robertis, di Bacchelli, dell’Onofri di Orchestrine (e accanto riviste come la «Riviera Ligure» e piú tardi «La Raccolta») aveva corrisposto alle indicazioni di Serra nel suo Testamento disperato e fedele, nel ricondurre nella civiltà della pagina sicura, dello stile come somma dell’esperienza e della moralità, ogni esigenza che i vociani potevano cercare anche fuori di un’organica radice letteraria. In verità anche nella prosa vociana la tensione alla risoluzione integrale della personalità nel segno dello scrittore era forte, e uno studio spregiudicato di questo passaggio tra «Voce» e «Ronda» troverebbe in molti vociani puri anche indicazioni pienamente stilistiche per la prosa saggistica, ma certo con l’accentuazione di coscienza artistica nella «Voce» letteraria e poi, ben piú chiaramente, con il programma rondista, si inizia una nuova concezione dei rapporti fra cultura e letteratura, un nuovo modo di civiltà letteraria in cui il mito della concretezza del rinnovamento viene sostituito dal mito della concretezza stilistica e da una pratica di «pagina» assai diversa dall’effusione impressionistica e dallo scatto vociano.

Ora che, dopo la seconda guerra mondiale, misuriamo meglio i precisi limiti del mondo in cui siamo vissuti e possiamo osservare con un nuovo distacco quella particolare cultura di origine rondista, quel gusto sicuro e limitato, quell’ordine letterario che nella tradizione italiana (ma con quanta conoscenza di letteratura europea!) trovava una forza e un mezzo di evasione dagli impegni del primo Novecento, dalle sue tentazioni moralistiche, dai suoi pericoli di eloquenza o di approssimatezza, un’aria innegabilmente rarefatta si respira su di uno scenario perfetto e miniaturistico e lo stesso piacere di pagine lucide, pastose, ricche di intelligenza e di sensibilità nei loro incontri piú preziosi ed intensi, finisce per colpire come un eccesso di profumo. Ma, al di là di questa impressione che non si smentisce facilmente, l’importanza del rondismo e dei suoi concreti esempi, da Bacchelli a Cecchi, da Cardarelli a Baldini (sostegno sicuro della lirica a loro contemporanea), supera quella di un piccolo cenacolo letterario e di un movimento di calligrafi inarrivabili, implica un approfondimento delle esigenze artistiche di una cultura piú precisa nei suoi volontari limiti (piú Valéry che Romain Rolland per intenderci) di fronte a movimenti piú ricchi e piú generici. Lo stesso «neoclassicismo» e la tendenza «italiana» che finí in «strapaese» erano venati di cultura europea e costituivano non tanto una concessione ai motivi dell’ordine e della tradizione cari alla dittatura politica, quanto una possibilità di precisazione e di volontaria limitazione di quella disponibilità e curiosità vociane che avevano fruttato alla fine una delusione e una dissipazione. Ed a suo modo la chiusura rondista sulla pagina, sul saggio e sul giornale poetico, in un continuo controllo critico adibito dall’interno alla sicurezza del proprio modo espressivo (mentre nella cultura vociana la critica era stata soprattutto riconoscimento di personalità e pretesto di impostazioni morali), era insieme reazione e riflesso delle preoccupazioni dell’inizio del secolo, del desiderio di una compatta novità, di una nuova cultura, ed in tal senso anche l’esperienza della «Ronda» nel suo significato piú vasto importava pure una possibilità di scontentezza, di delusione, anche se era riuscita a fondare una civiltà letteraria viva fra le due guerre (attraverso «Solaria» e «Letteratura») e capace di assorbire nuove letture e nuove esperienze (da Proust a Svevo, da Joyce a Kafka) ed anche se, soprattutto, aveva dato concreti risultati artistici. Anche la sua aspirazione ad essere in quanto letteratura una nuova cultura, a risolvere tutto nello stile, era unilaterale e a suo modo retorica ed insufficiente. Ma nella storia del nostro tempo, nel ritorno di piú energiche esigenze di rinnovamento generale, che su altro piano potrebbero ripresentare il tema vociano di una piú diretta unione di cultura e letteratura, la sua lezione di misura e di coscienza dei mezzi espressivi, di rifiuto della vecchia richiesta illuministica «cose, non parole», appare tuttora fruttuosa, e distintiva insieme alla coscienza critica derivata dal metodo crociano, per il tono particolare della nostra cultura.


1 Testimonianza notevole in proposito il libro di Peter Riccio, On the threshold of fascism, Columbia University, New York, 1929.